«Il segno espressivo in cui si colloca il Teatro Sotterraneo lo si coglie ancor prima dell’inizio: schierati in fila dietro ai loro microfoni, immobili in un silenzio teso, concentrato, i quattro attori, più che i componenti di un giovane gruppo fiorentino, sembrano appena usciti dalla Carnìceria, la compagnia madrilena di Rodrigo García. Le tute che indossano, con impresso sulla gamba il titolo dello spettacolo, non somigliano certo a costumi teatrali, ma neppure ai vestiti di tutti i giorni: sono indumenti da lavoro, da atleti o da acrobati circensi, che rimandano unicamente a una realtà sospesa, circoscritta allo spazio neutro della scena. Il palco è ostentatamente vuoto, disadorno. Sarà un richiamo al vuoto della vita, che si deve tentare di riempire con l’illusione di un incessante movimento? Sarà questo il senso delle continue corse da un capo all’altro della ribalta, quasi che fermandosi ci si trovasse faccia a faccia con la consapevolezza di non sapere che fare di se stessi? E quella vaga ossessione di scandire il tempo, che attraversa sottilmente l’intero spettacolo, quella sorta di impulso a quantificare la durata delle azioni, facendo più volte la conta in base a numeri forniti a caso dalla platea, non rifletterà l’inutilità dei tentativi di fermare il fatale trascorrere delle cose? Come nella vita, i quattro amano, giocano, si cercano, si sfuggono, fanno feste inconcludenti. Se, anzi, lo spettacolo precedente – il folgorante Post-it – affrontava a suo modo il tema della morte, La cosa 1 tratta invece prevalentemente dell’amore, del sesso, dei sentimenti: ma sono sentimenti destinati a non condurre a nulla, soffocati da quell’agitarsi senza sosta, annichiliti dall’impotenza delle parole con cui vengono dichiarati, raggelati dall’invadenza di tormentosi questionari che frugano nell’intimità dell’individuo, una figura grottescamente travestita, come l’anonimo personaggio del Goya di García, da incongruo pupazzone di peluche. Di cosa è fatto il linguaggio del Teatro Sotterraneo? Non di emozioni, sistematicamente negate sul nascere, non di immagini, sacrificate a uno stile spietatamente spoglio, non di storie dotate di senso compiuto, la cui rappresentazione non viene neppure presa in considerazione: in effetti questo gruppo, fra i più emblematici dell’ultima generazione, punta quasi esclusivamente sulla pura energia psico-fisica, sull’esemplare rigore compositivo e su una comunicazione allusiva, ironicamente trasversale. Alla base c’è una personalità davvero molto forte: ci vuole una grande sicurezza di sé per rinunciare praticamente a tutto, sapendo che comunque l’attenzione dello spettatore non cadrà neanche per un attimo».
Renato Palazzi, delteatro.it
Non è un paese per giovani.
«Quando invece il problema è la messa in discussione della stessa rappresentazione, questa avviene solitamente attraverso l’utilizzo di un procedimento: una feroce ironia. Ogni oggetto, ogni gesto, ogni azione perde di senso o, almeno, il senso slitta continuamente. Non pochi gruppi iniziano dichiarando di non avere nulla da dire, iniziano confrontandosi con un’idea di fine declinata poi su sentimenti e identità e, soprattutto, sul teatro stesso. Il linguaggio della dissoluzione, coniato da Kinkaleri negli ultimi anni, viene così recuperato almeno come orizzonte, come aria respirata, anche se cambiato sostanzialmente di segno. Quello che importa è il procedimento di montaggio e smontaggio della scena che viene portato avanti ad esempio da Teatro Sotterraneo (Firenze) e Cosmesi (Bologna). Sono percorsi questi che intraprendono una strada estremamente difficile perché fin da subito si posizionano su un limite: una disperazione ai limiti del tic e della nevrosi, un’ironia che può cedere al cinismo, un gioco che quando perde di carica utopica si fa scherzo. In questo caso la rappresentazione è negata ma è l’oggetto con cui fare i conti, e il coraggio risiede proprio nello sporcarsi le mani con le cose del mondo, nel provare a ritrovare un’intelligente comunicatività con il pubblico, anche utilizzando un immaginario quotidiano certo da criticare, ma non da rimuovere. In La Cosa 1 di Teatro Sotterraneo si parla proprio della condizione dei giovani e di una crescita assurda. Si tratta di uno spettacolo tutto in movimento, perché i quattro ragazzi sulla scena, come alle prese con una gara senza traguardo e senza meta, corrono come matti nella perenne ambiguità che si tratti di una fuga o di un arrivo, di un gesto volontario o eterodiretto».
Rodolfo Sacchettini, Lo Straniero
Il gioco della corsa.
«Nel tentativo di non considerare lo spettatore un occhio passivo da persuadere a tutti i costi, abbandonando le logiche didascaliche di una comunicazione immediata, Teatro Sotterraneo si sporca le mani con immagini e riferimenti rubati ai mass media. La Cosa 1, il cui titolo si presenta già come un indovinello, è l’esplosione di questi materiali, l’accumulo ostinato di slogan e scene di possibili telefilm e telenovele. Dichiarazioni d’amore sulla panchina, un party privato in campeggio sulle note di Cacao Meravigliao, una partita a nascondino e le apparizioni di un enorme tricheco di peluche. Il discorso che lo spettacolo sottende è un percorso di crescita, la maturazione che porta alla consapevolezza del terreno nel quale si cammina, e si corre. La corsa è infatti la cornice dello spettacolo, o piuttosto la vera performance. In divise da corridori firmate Nike, scarpe comprese, gli attori inaugurano lo spettacolo cantando a cappella un pezzo dei Carmina Burana, e poi cominciano a correre. Si lanciano in tutti gli spazi della Stazione Leopolda di Firenze, dove La Cosa 1 ha debuttato, per raggiungere un traguardo invisibile e mai definitivo. La corsa non si interrompe, e le scene sono sempre disturbate da uno o più attori che si lanciano a gran velocità accanto agli altri. Nei pochi momenti in cui gli atleti sostano ai lati della scena asciugandosi il sudore, si avverte lo scarto, forse ancora da precisare, quello di una realtà esterna che emerge in tutta la sua forza e pesantezza. Quegli attori faticano davvero. Teatro Sotterraneo ci indica con astuta leggerezza la regola del gioco alla quale sottostiamo, l’urgenza di fare e strafare, arrivare per poi scappare via e non potersi godere che una breve sosta. Lo spettacolo si conclude con un coro da stadio posticcio, che alle grida di “Sotterraneo! Sotterraneo!” ci chiama direttamente in causa, ribaltando il senso dei nostri applausi».
Serena Terranova, Hystrio
«Teatro Sotterraneo è un collettivo senza leader e gerarchie, non c’è un regista e tutti collaborano alle varie fasi di creazione, è un gruppo che si è imposto per una visione personale ed originale del momento artistico. Il ritmo incalzante e la tagliente ironia caratterizzano i loro spettacoli, successione di brevi scene cariche di rimandi al quotidiano, di elementi di una cultura pop che invade le nostre vite, di nevrosi che la caratterizza. La presentazione di ogni elemento subisce un continuo slittamento di significato nella successione delle azioni sceniche, che sotto l’ironia nascondono forte drammaticità e cinismo. Nell’ultimo spettacolo, La Cosa 1, si è trascinati da una corsa continua e senza sosta dei performer in scena, che attraversa un frenetico montaggio di momenti di vita quotidiana caratterizzanti l’adolescenza, in cui tutti si riconoscono. Le tentennanti dichiarazioni d’amore, i party privati, i qui, il nascondino, le musiche televisive, e l’apparizione di un enorme peluche: tutto appare o scompare nella corsa verso la fase successiva, si accavalla nel ricordo che in un attimo svanisce lasciando un po’ d’amarezza, e si affaccia per un secondo una domanda “Se potessi tornare indietro faresti le stesse cose?” Ma non c’è tempo per rispondere, si deve continuare a correre».
Ilaria Mancia, Mucchio – Il mucchio selvaggio
«Dino Sommadossi e Barbara Boninsegna hanno chiarito subito le forme e le poetiche che hanno pervaso gli spettacoli visti per dieci giorni nella Centrale di Fies nella scelta dei gruppi che formeranno la Factory, ossia una vera famiglia teatrale che avrà Fies come casa: Sonia Brunelli, Dewey Dell, Francesca Grilli, Pathosformel, Teatro Sotterraneo. E iniziamo la nostra analisi del Festival proprio da quest’ultimo gruppo di cui avevamo apprezzato a suo tempo Post-it come frutto già maturo di un percorso preciso. E La Cosa 1 con l’elaborazione drammaturgica di Daniele Villa ed in scena Iacopo Braca, Sara Bonaventura, Matteo Ceccarelli, Claudio Cirri, ci pare confermarlo, qui lo spazio scenico è attraversato da corpi che corrono letteralmente a perdi fiato, persone che non riescono più a comunicare tra loro, le parole sono banali, smozzicate, sconosciute o tutt’al più sono coperte dal rumore dei passi che rimbombano sulla scena. Sono persone comuni i nostri protagonisti ma non possono esserlo, come atleti acclamati dalla folla hanno bisogno solo di apparire vincenti, i sentimenti sono nascosti, non c’è tempo per quelli, l’importante è correre per arrivare primi, ma è una corsa che sfocia nel nulla. La corsa è interrotta, come è già stile del Sotterraneo, da brevi siparietti, venati costantemente da ironia dove ci sta pure una grande foca di peluche, si ride parecchio per non piangere, per altro senza sottolineature di senso».
Mario Bianchi, eolo-ragazzi.it
«Convincono in pieno anche Made in Italy e La Cosa 1 del Teatro Sotterraneo. Entrambi i gruppi ricordano quanto la sperimentazione teatrale non debba essere sempre seria e astrusa, ma quanto possa passare anche attraverso la comicità […]. Teatro Sotterraneo, invece, costruisce uno spettacolo sfidando il limite della stanchezza fisica. Per tutta la durata di La Cosa 1, il gruppo fiorentino, con addosso delle tutine da jogging, corre incessantemente, fermandosi solo per dare vita a deliranti sketch (un party privato in una mini-tenda, una dichiarazione di amore e odio in giapponese, l’irruzione di un enorme pupazzo di peluche)».
Mauro Petruzziello, xl.repubblica.it
Il mondo è pazzo? Non ci resta che ridere! La filosofia del Sotterraneo di Firenze. «Impazzisci, e poi stupisci!», sghignazzava il Joker dalle pagine di Batman: The Killing Joke , uno dei capolavori della letteratura a fumetti nato dal genio del vate Alan Moore. La nemesi per antonomasia del Dark Knight la sapeva lunga su ciò che ci separa dalla “normalità” e dalla follia: un maledetto giorno sbagliato. Per chi sa vedere, quel giorno si ripete ogni mattina. E per chi è insanamente sano di mente non si può far altro che riderne per comprendere.
Il Teatro Sotterraneo – made in Firenze – lo fa, e anche molto bene. In un teatro che spesso si dimentica di intrattenere, e anche divertendo(si), il giovane collettivo di ricerca teatrale nato nel 2004 riesce nell’impresa dell’autoironia. […] Non esistono intellettualismi a comprimerli in risacche di anidride carbonica, ma l’ossigeno dell’autoironia, il non prendersi mai troppo sul serio, in una satira che non perde di vista il dono prezioso dell’intelligenza. Quattro performer e un dramaturg, insieme in una ricerca comune, che dopo le annotazioni contenute in Post-it sull’umano vivere, ci regalano ora cartoline dall’Inferno della dimensione domestica e del mondo che ci attende fuori l’uscio di casa. Due produzioni parallele, ma complementari: Eko, in attesa di trasformarsi in Suite a Prato (nella rassegna Contemporanea ’08 dal 28 maggio al 2 giugno), e La Cosa 1 che, dopo essere stata a Roma a Uovo Critico, sarà in un primo studio al Festival Inequilibrio esploso a Castiglioncello (19 aprile), e in prima nazionale al Festival Fabbrica Europa (Firenze, 20-21 maggio). […] La Cosa 1 pone l’uomo di fronte alle sue corse disperate all’inseguimento di non si sa più cosa. Sulla scena in un continuo e disperatamente comico movimento, gli attori vivono di iperattività, di serialità, del fare in continuazione qualcosa, raggiungendo il limite della resistenza. L’uomo, separatosi dalle labili sicurezze della dimensione casalinga, cade vittima della società che ha costruito. Ma per fortuna, guardando l’abisso, ci è concessa una sana risata».
Giacomo D’Alelio, Queer
«Quattro atleti, fermi sulla scena. Hanno addosso scarpe da corsa e tessuti hi tech da androidi sportivi per la traspirazione, la sudorazione, il movimento libero. Sono pronti ad affrontare la vita. Tra fasi di riscaldamento e di ripresa, di scatto e di resistenza, La Cosa 1, proposto dal Teatro Sotterraneo al teatro Tam Maddalene di Padova, è un vortice di velocità. Tutto esplode dopo un’emozionate esecuzione dal vivo dell’O fortuna, dai Carmina Burana. Un’invocazione, si prepara il terreno al pubblico: sta per precipitare la quiete, inizia la giostra. Sembra un vero e proprio allenamento fisico questo spettacolo intenso e impattante, in cui Iacopo Braca, Sara Bonaventura, Matteo Ceccarelli e Claudio Cirri, soprattutto, corrono. Usando lo spazio nella sua interezza, in un random di frenesia che non trova pace se non nei pochi momenti di dialogo, tra di loro, o con il pubblico. Momenti in cui si scopre il significato di un titolo tanto enigmatico: La Cosa 1 è l’amore. Amore che sfugge, in cui in realtà si riesce a dire poco e nulla: Sara-ti-amo-ma-con-questo-avrei-finito-non-ho-nulla-da-aggiungere; amore che vive di fugaci contatti, una carezza sulla mano e poi via, di corsa, di nuovo scattare correre sudare. Amori che non si capiscono, i due amanti possono anche parlare due lingue diverse, non occorre il dialogo. Amori superficiali, a cui non si lascia il tempo di sbocciare. Amori da festa in discoteca, e sulla scena appare improvvisamente una casetta con la scritta “party privato”. Ma è una casetta da campeggio: pure quella, provvisoria. E così come gli amori, anche le altre relazioni umane: per conoscersi si compila un questionario, bastano dieci domande preconfezionate. Per avere un contatto, basta un cinque scambiato durante la corsa. Per costruire un rapporto d’odio, basta chiedere al pubblico quante sberle dare, da uno a dieci. Nove? E nove ne piovono. Per un rapporto d’affetto, l’equivalente sono i baci. E quando compare sulla scena un enorme pupazzone blu, ironico e inquietante, nessuno si stupisce: il suo straniamento, la sua goffaggine, la sua inappropriatezza sono dentro al fiume in piena che scorre, esattamente come le vite di mille uomini. Nessuno ha nulla da dirsi, in questo scenario da pallina da flipper, perché nessuno riesce a farlo. Nemmeno l’acuto di Pavarotti riesce a concludere il suo vincerò, che rimane sospeso a mezz’aria su una e prolungata: è un’attesa infinita, non c’è una concretizzazione finale. La Cosa 1 contiene l’amore, e contiene la fretta. E contiene anche l’accelerazione: come un trailer frenetico al fast forward, in cui scorre tutta la vita compattata e asciugata, dove la corsa fa da risposta al monito del Nessun Dorma. E se il tema dello spettacolo non risulta particolarmente innovativo, assolutamente innovative e riuscite sono la messa in scena, la regia, la drammaturgia. Una drammaturgia, curata da Daniele Villa, basata sul non detto, che studia in modo particolare cosa non far dire, e cosa invece far agire. La Cosa 1 non è didascalico o verboso, e forse non è nemmeno una denuncia. È una fotografia, un’istantanea del presente: come quelle che gli attori – performer scattano al pubblico, mentre corrono. La Cosa 1 è pure straniante e divertente, leggero e tagliente. Uno spettacolo interessante, chiaramente distinto dal panorama contemporaneo teatrale, che continua con una potenza notevole il percorso che Teatro Sotterraneo, vincitore del bando ETI Nuove creatività nel 2008, ha iniziato con Post-it e Suite».
Marianna Sassano, nonsolocinema.it
L’anteprima del nuovo spettacolo di Teatro Sotterraneo al Castello Pasquini. «Càpita andando in giro per teatri di imbattersi in coincidenze, di osservare delle linee che si intersecano all’insaputa di chi le ha tracciate. Sarà l’aria del tempo, lo Zeitgeist che si diverte perché, obbiettivamente, il coincidere contiene spesso un elemento di comicità, di bizzarria. Nulla in apparenza accomuna due maestri della ricerca italiana quali Rem e Cap e un gruppo giovane come il Teatro Sotterraneo, quattro performer e un dramaturg che a stento raggiungono tutti insieme i cent’anni di età. Remondi e Caporossi qualche settimana fa hanno proposto nel quadro di un laboratorio teatrale un allestimento tratto da un testo di Beckett poco noto e ancor meno citato, Assez (Basta). I quattro attori hanno presentato l’altra sera al Castello Pasquini di Castiglioncello per il festival Inequilibrio esploso/Armunia Costa degli Etruschi uno studio su un loro progetto intitolato La Cosa 1. In comune i due spettacoli hanno che sono praticamente senza parole. Di conseguenza, il secondo aspetto che li avvicina è la loro natura prettamente femminile, intendendo per maschile un teatro drammaturgicamente strutturato, affermativo, argomentativo, fondato sul verbo in quanto strumento principe di esposizione del ragionamento logico-razionale e del rapporto causa-conseguenza. I due allestimenti invece lavorano su concatenazioni concettuali analogiche funzionanti su principi di somiglianza, riconoscimento, identità. Altrettanto organizzata se non addirittura maggiormente rigorosa rispetto alla drammaturgia scritta è la rappresentazione dei processi intuitivi. Sono stati scritti in questi ultimi trent’anni vari fiumi d’inchiostro sulla differenza fra scrittura scenica e scrittura drammaturgica e poi qualche cascata di parole sul ritorno negli anni Novanta della drammaturgia a teatro. Fatto sta che, a livelli diversi – più comico e leggero il Teatro Sotterraneo, filosofico nel caso di Rem e Cap – la questione della ricerca formale di una scena che superi il linguaggio continua a porsi. È interessante allora vedere che la compagnia giovane e i due Maestri stanno sulla stessa strada. E in fondo proprio di strada si tratta: in Basta sette coppie beckettiane – giacca, pantaloni e cappello scuri da uomo – camminano da destra a sinistra, senza sosta, una dopo l’altra, su un tappeto di sabbia lungo una ventina di metri; nella Cosa 1 i quattro performer raccontano storie di incontri correndo a perdifiato sulla scena e sbattendo l’uno contro l’altro. Non si ha idea di quante cose si possono fare in corsa, persino la corte alle ragazze, persino una critica alla società attuale, una presa in giro della nostra way of life. Correre e camminare come metafore. I due spettacoli rifiutano lo stesso principio di riduzione della scena a una rappresentazione in scala della vita, operazione per platee necessitose di immagini facili, naturalistiche, subito comprensibili. Rigettato è il teatro come forma di voyeurismo, il teatro borghese adatto allo spettatore che si contenta di riproduzioni del mondo materiale, della realtà così com’è, non trascesa, non elevata su un piano metaforico. Abitudine mentale cristallizzata dalla televisione, dai reality, dalle fiction e utile alla trasformazione dello spettatore in un guardone, ergo in cittadino manipolabile attraverso lo strumento del desiderio. L’orrore per questa esperienza grossolana del mondo che allontana dalle dimensioni metaforiche e spirituali, il dispiacere per i progressi dell’ortodossia e del conformismo, il fastidio per la granitica omogeneità del comune sentire, avvicinano il Teatro Sotterraneo alla alta filosofia teatralizzata di Remondi e Caporossi. E producono un’insofferenza giustificata verso il naturalismo. Poi però, càpita di rivedere di notte, per insonnia, su una vecchia videocassetta, Apocalypse now e di rammentare che le cose, in fatto d’arte, sono sempre più complesse di un istante prima».
Marcantonio Lucidi, ladifferenza.org
«Firenze – Tra uno schiaffo ed una carezza. Una manata fresca che arriva sotterranea. Un qualcosa di talmente vero e quotidiano, lo scarto dal drammatico che sboccia nel consueto, che pare di fumetto, di cartoon. Ed infatti i Fantastici 4, (ci vuole un fisico bestiale) dopo aver nominato la piece “La Cosa 1” (che da immobile nelle strisce qui diventa per contrappasso una corsa infinita tra quattro cantoni e nascondino), hanno tute attillate da runner. Jumper nelle banlieue, ciclisti di fondo per il record dell’ora, a scardinare i ritmi, nelle loro mute da sub, respirando tra le branchie dell’intelligente testo di stretching emotivo, di assonanze, anche autocelebrative, di occhiolini ad un certo caustico e raffinato salto mentale. Come la poesia, che dice dicendo altro, che arriva non parlando dell’oggetto, ma del contesto. Giungendo più forte e più pungente. Ma non sono supereroi: hanno fiatone ed ansie. Hanno bisogno, con il pubblico lì davanti, di portarselo un altro in tasca, in cassetta, più malleabile e convinto. Hanno storie di drammi familiari alle spalle ma nessuno se ne cura, anzi se ne ride (non potremmo fare altrimenti). Intavolano gag, deliziose e deliranti, con quel sapore di banalità nelle quali ci ritroviamo ma alle quali non sappiamo dare contributi e risposte. Le lasciamo scorrere, come olio sulla pelle. I Sotterraneo ce le piazzano davanti, ti aprono le pupille con uno stuzzicadenti e ti fanno vedere: la panchina (niente amanti di Peynet, grazie) dove cominciano gli amori incerti adolescenziali e sulla quale nessuno si può permettere, ma tutti la vorrebbero, la colonna sonora di “Ghost”, un party finto divertimentificio, escluso ma non esclusivo, di una festa tragica e triste di plastica. Un amore con la A maiuscola, travestito da goffa foca inseguitrice stile Pac Man, medley nazional popolare dell’ugola sanremese. Geniali».
Tommaso Chimenti, scanner.it e Il Corriere di Firenze
«È il festival delle promesse mantenute. Dove accade che i piccoli, come recita il manifesto di quest’anno, abbandonata l’arroganza dell’adolescenza, siano in grado di consegnare al pubblico piccole opere incisive, ricerche estreme sul movimento e indagini sulla quotidianità del sentire […]. La danza, come linguaggio e allenamento quotidiano che sanno plasmare i corpi e farli gioire, balbettare, soffrire, è l’anello mancante di un altro lavoro molto interessante presentato a Dro in forma ormai matura: La Cosa 1, creazione collettiva di Teatro Sotterraneo in coproduzione con Fies Factory One, è uno spettacolo filosoficamente importante, perché utilizza, senza citarli esplicitamente, tutti gli elementi costitutivi del tanztheater nella sua espressione più alta, quella elaborata a suo tempo nei grandi affreschi di Pina Bausch: entrate, uscite, incontri, improvvisazioni, corse, ripetizioni, prese, abbandoni, rivelazioni autoironiche e autobiografiche, grandi silenzi e sospensioni. Tutto tranne lo specifico della danza […]. Magistrale l’inizio, con i Carmina Burana destrutturati, in forma di mottetto. E il sotto finale, con un countdown che ci regala il beneficio del dubbio e un paio di tempi supplementari».
Paolo Crespi, Il Gazzettino
«Dro – non tutte le ciambelle riescono col buco, ricorda scherzosamente il motto di Fies Factory One. Ma queste anomale “ciambelle” teatrali, contese sulla piazza dei festival estivi, hanno già ripagato le aspettative. […] Altre esperienze estetiche e creative hanno trovato spazio negli impasti ironici di Teatro Sotterraneo, in scena lunedì sera con il ready-made rettificato di «La Cosa 1». Un film cult in bilico fra horror e fantascienza girato nel 1982 da John Carpenter. Un documentario di Nanni Moretti sul dibattito aperto dalla «svolta della Bolognina». Un supereroe della Marvel per la milizia dei Fantastici Quattro. Sono solo alcuni dei possibili referenti centrifugati in un titolo che definisce l’indefinibile e lo assoggetta all’imperio del sequel. Tutta l’attività della compagnia fiorentina, del resto, ricicla i miti e i prodotti della società mediatica in quadri graffianti che incrociano l’atletismo del teatro di movimento. Qui l’oggetto è di fatto la vita, ridotto al suo minimo comune denominatore attraverso un irresistibile montaggio di fatti biografici e collettivi. Creazione di una formazione orizzontale, senza leader e gerarchie, «La Cosa 1» raccoglie sotto l’invocazione alla Fortuna, rubata alla galleria di destini dei Carmina Burana, un nuovo autoritratto soggettivo e «epocale» che si rimangia fiumi d’inchiostro sulla «crisi dei giovani» con la sua capacità rinfrescante e politicamente scorretta di portarli in scena».
Katia Malatesta, L’Adige
«La conferma si chiama “Teatro Sotterraneo”. Già molto applauditi l’hanno scorso con “Post-it”, hanno ribadito lunedì la sostanza e la freschezza di un teatro fatto soprattutto di ironia e senso dell’assurdo, che il gruppo di quattro giovani attori-autori toscani riesce ad esprimere coraggiosamente, mescolando luogo comune e paradosso. “La Cosa 1” è uno spettacolo giocato al ritmo frenetico di una quotidianità di vita che resta centrale nella ricerca del gruppo. Che sceglie l’apprezzabile via del contatto diretto col pubblico per ironizzare sull’incapacità, tutta contemporanea, di una super-comunicazione non comunicante. Di una precarietà progressiva che scompone l’individuo in una molteplicità di non-stare semplicemente impossibilitati a fermarsi. Anche, e soprattutto, di fronte all’amore».
Tommaso Pasquini, Il Trentino
«Una staffetta corsa in Centrale, senza pause di ristoro, da gustare tutta d’un fiato. Saltando di palo in frasca sulla scena, con un altro fresco amarcord dell’assurdo e molta arte di arrangiarsi, i Teatro Sotterraneo, anche quest’anno sono riusciti a distinguersi tra le proposte del festival internazionale di Drodesera Fies con La cosa 1, in scena lo scorso 28 luglio 2008».
Miriam Monteleone, teatroteatro.it
«Tra le rappresentazioni in dialogo fra loro, su tutte spicca la trascinante performance di “Teatro Sotterraneo”, che a 4 anni dagli esordi porta in scena un nuovo, delirante spettacolo: “La Cosa 1”, debutto di questa estate con ottimi riscontri dalla platea. […] Fiori all’occhiello del teatro giovanile di ricerca, i “Sotterraneo” si incontrano professionalmente nel 2004, debuttando nel settembre con la messa in scena dell’inquietante “11/10 in apnea”, che guadagna la partecipazione al Premio Scenario 2005. Poi corre – e veloce – questo gruppo, nella vita professionale come sulla scena della loro “cosa”. LO SPETTACOLO – “La Cosa 1”, originale creazione nata dal consueto studio corale, altro non è che un’efficace metafora sottesa di questo frenetico nostro contemporaneo. È l’isterica e angosciata corsa dei tempi in cui viviamo, dove non conta più tanto l’obiettivo quanto lo stare in ballo. Quattro attori in tuta sportiva che corrono incessantemente lungo tutto lo spazio e il tempo della messa in scena, che rappresentano noi e loro stessi insieme, accomunati da una ricerca affannata in cui la meta sfuma, arretra, cede il passo a una corsa che si nutre di se stessa. La “cosa” è l’esplosione del luogo comune portato all’eccesso ma non reso mera parodia di sé. Perché la rappresentazione – a tratti esilarante – è più sottile. Di spazio per ridere nello spettacolo ce n’è in abbondanza, ma l’accorto insieme risulterà tutto fuorché didascalico. Abbandonando regole e forme della comunicazione tradizionale, lo spettacolo tiene in considerazione il pubblico senza urlargli in faccia “Verità Assolute”, con dialoghi ridotti al minimo e costantemente frammentati. Uomini e donne che si muovono per muoversi, metafora del contemporaneo quotidiano che vuole i suoi protagonisti calati in uno spasmodico iperattivismo, che nel correre dimenticano pure perché stanno correndo, ma che nutrono il moto perpetuo purché niente lasci loro il tempo di sostare. Fra sketch sempre in bilico fra luogo comune e paradosso – dalla dichiarazione d’amore fumettistica fino alla comparsa di un enorme tricheco di pezza, stordito da test psicoattitudinali che ricalcano il quotidiano lavorativo di un’intera generazione – la “cosa” è lo stretto confine che separa la forzatura ilare dal baratro della realtà, che colpisce con l’urto di una risata necessaria, ma nasconde una verità di cui tutti siamo protagonisti, più o meno volontari. Uno spettacolo ben orchestrato che lascia lo spettatore divertito ma consapevole giusto un istante troppo tardi: quando il sipario è chiuso e resta lo spazio della riflessione. L’epilogo paradigmatico del dubbio che s’insinua nell’osservare la faticosa corsa dei nostri, e nel temere che a questo, in fondo, sia ridotta la nostra (sola) esistenza».
Cecilia Dalla Negra, fondazioneitaliani.it
«Il collettivo di ricerca teatrale Teatro Sotterraneo, composto da Iacopo Braca, Sara Bonaventura, Matteo Ceccarelli e Claudio Cirri, porta in scena all’interno del festival Short Theatre, al Teatro India, lo spettacolo La Cosa 1, instancabile e forsennato lavoro basato sul movimento, sul fisico (più che sul corpo) e sul fiato. Quattro “performer” si muovono sul grande palco della sala B-bis; corrono, sempre. La loro corsa continua e apparentemente senza significato, giacché ogni progressione è fermata poi dall’ostacolo oggettivo delle mura, si configura come “sforzo estremo”, slancio, il … raggiungere, fino allo sfinimento (reale, non recitato!). Il fiatone a volte li vince e li arresta, qualcuno si accascia, uno si appoggia alle ginocchia per riprendere fiato, un altro cade a terra sfinito; ma ecco la furia di uno dei compagni che lo prende per mano, lo scuote dalle spalle e lo sprona a ricominciare la corsa, furiosa. Furor. Una celata propensione “donchisciottesca” anima il quartetto inarrestabile che non conosce vincoli, è cieco e non si domanda, ma corre semplicemente. Sine ratio. Una performance che potrebbe essere avvicinata alle istanze della Body Art, ad uno primo sguardo. Niente di più lontano. Non è la ricerca del corpo sul corpo che emerge, né il corpo è proposto come l’istanza significante dello spettacolo; è piuttosto “l’atletismo” a padroneggiare la scena, come dimostrano i costumi indossati dagli attori: tute da ginnastica, maglie elastiche di quelle che aderiscono al corpo e permettono la massima mobilità, scarpe antiscivolo e ginocchiere. Viene negata qualunque esaltazione del corpo, nascosti i rilievi dei muscoli, è così che tramonta l’estetica della fisicità in favore della celebrazione del prodotto di quella fisicità: l’azione, il movimento, lo sforzo. Streben. “Ha inizio il movimento, qualsiasi movimento – citando i Sotterraneo – tutto purché qualcuno faccia qualcosa, una messa alla prova continua di muscoli e nervi – dunque non la loro esibizione – un corpo precario che dà tutto anche quando non né ha più (…) una presentazione d’iperattività che va dalla culla all’apocalisse”. Si potrebbe intendere La cosa 1 come una visione della vita, non singolare ma universale, come il tentativo di definire il passaggio dell’uomo sulla Terra. La stasi è la morte, ecco dove torna Don Chisciotte, il movimento è vita. Diventa superfluo anche dichiarare un “perché”, ciò che conta è il moto insaziabile fino al limite delle possibilità umane. Hybris. Tutta questa energia cinetica prodotta per la scena è contaminata da vari e deliziosi momenti di puro teatro, nei quali il gruppo toscano ci parla, tra autobiografia e invenzione, della vita (stavolta particolare) di ognuno dei componenti: fra Carmina Burana cantati “a cappella”, una festa improvvisata all’interno di una piccola tenda, un pupazzo-tricheco che goffamente si aggira per la scena, trovano spazio momenti più rilassati in cui i tre uomini corteggiano l’unica donna, sfidandosi con grande intelligenza drammaturgia (merito di Daniele Villa) a suon di letterine piene di errori, esternazioni appassionate in giapponese e gaffe varie. Tutti passaggi densi di significati e di rimandi, pure riflessioni sullo scorrere della vita, innocenti domande e serene risposte sull’amore. Sono momenti di calma in cui al pensiero è permesso di entrare in scena, giocare con le parole e col pubblico, innescare un ragionamento nella testa dello spettatore, frastornato da tutto il movimento tangenziale (indicativo il passaggio in cui Matteo domanda ad una signora del pubblico “un numero da uno a dieci” – “sei” risponde la spettatrice, ignara del fatto che quel numero corrisponderà ai sonori schiaffoni che Iacopo rivolgerà al compagno). Chiude lo spettacolo il buffo tricheco blu, goffo, inabile, muto, asettico. Un’icona che si oppone fortemente al turbo che ha dominato la scena finora, e alla quale un po’ tutti assomigliamo».
Filippo Ferraresi, close-up.it
«Corrono senza tregua i quattro giovani attori del Teatro Sotterraneo, con le loro tute da ginnastica e i muscoli bene in vista. Lo Spettacolo «La Cosa 1» […] vuole essere una «presentazione d’iperattività», un movimento continuo «alla ricerca di condizioni limite». Di tanto in tanto gli attori si fermano, senza fiato, e iniziano a cantare o a parlare. Raccontano storie surreali, tragiche, ma sempre con leggerezza e ironia. Come quella di un bambino ritrovato in un cassonetto e abbandonato pochi metri più avanti. Vediamo poi un coloratissimo tricheco, che irrompe in scena e viene subito intervistato da un distaccato giovane. E assistiamo a un intrecciarsi di storie d’amore intorno a una panchina, dove i tre ragazzi pronunciano, uno dopo l’altro, la loro dichiarazione d’amore alla stessa impassibile ragazza (Sara Bonaventura). Il lavoro risulta dunque interessante, e particolarmente originale la drammaturgia curata da Daniele Villa». Gherardo Vitali Rosati da “Il corriere della sera – Corriere fiorentino”, 24 maggio 2008
«Sono già sul boccascena, sono in quattro e indossano tute da ginnastica high-tech. Sono una via di mezzo fra sportivi e supereroi. Il pubblico entra in sala e prende posto. ‘Loro’ vanno via uscendo dalla scena ma lasciando i microfoni accesi. Inizia così “La Cosa 1”, spettacolo della compagnia fiorentina Teatro Sotterraneo, co-prodotto da Fies Factory One, l’interessante esperimento produttivo e di residenza promosso dal festival Drodesera Centrale Fies di Dro. Si capisce da subito che non assisteremo alla messa in scena di uno spettacolo eccessivamente concettuale o cerebrale: con le armi dell’ironia, dell’interazione col pubblico, dell’autocelebrazione, proponendo scene semplici ma ben architettate, Teatro Sotterraneo, dopo un’introduzione sulle note dei Carmina Burana cantati “a cappella”, ci fa ridere delle situazioni umane, ma anche dei nostri dubbi (“mi dica un numero da 1 a 10” chiede un attore allo spettatore, senza mai spiegarne il motivo). Il loro è un teatro fisico: la scena è spoglia tranne che per pochi oggetti; tutto si concentra sull’azione e sul fare. È un teatro che prende le distanze dalle compagnie di ricerca formatesi negli anni Novanta per affiancarsi ad altre interessanti e nuove realtà come Babilonia Teatro e gli Omini. È il teatro del Duemila, costretto a vivere con pochi fondi e quindi ad inventarsi linguaggi semplici e diretti. I Sotterraneo riescono a centrare l’obiettivo. Si ride, si ride molto e si riflette. Ci si immedesima e ci si emoziona. Ma c’è di più, a conferma della loro espressione di un teatro fisico d’impatto e senza fronzoli, questi quattro individui corrono e sudano per tutto lo spettacolo, e correndo si stancano davvero, e sudando avviene una catarsi che fa rendere più forti i loro messaggi. Questa corsa continua, ossessiva, arriva diretta allo spettatore. I Sotterraneo ne fanno una bandiera, quella della frenesia della vita contemporanea, incapace di soffermarsi, riflettere e fare una pausa. Incapace di comunicare e di amare, come si nota nella scenetta della dichiarazione sulla panchina del giardino. La corsa è la parabola della vita ma anche e sopratutto del teatro, della storia di una giovane compagnia che ha idee innovative, è radicale nel proporsi e si autoproclama come un collettivo teatrale senza capi e senza gerarchie, secondo la logica del “fare tutto insieme”, della condivisione: sullo stile delle cooperative anni Settanta che, dai Novanta, stanno sulle poltrone che contano di questo nostro teatro. Questi cinque giovani non ancora trentenni (c’è anche un dramaturg che non entra in scena) da quattro anni girano l’Italia in lungo e in largo, corrono e sudano la loro voglia di teatro, le loro doti e capacità drammaturgiche e performative. Tutto in fretta, senza sosta, da Volterra a Dro, da Roma a Milano, rinnovandosi sempre, mettendosi in gioco, costretti forse a mettere da parte, talvolta, le rispettive storie personali. Il risultato è davanti ai nostri occhi: una compagnia che sta crescendo velocemente così come l’abbiamo vista correre in scena, incanalando uno dopo l’altro spettacoli e gettandosi alle spalle i sacrifici di una realtà teatrale precaria, quella del giovane teatro di ricerca. Ma tutto questo correre porterà a qualcosa? La risposta di Teatro Sotterraneo s’intuisce grazie a un buffo tricheco che entra in scena per il finale. Trasmette una voce registrata, simile ai giochi fatti col pubblico poco prima. La domanda è: “Se tornaste indietro, lo rifareste? Sì? No?”. La risposta viene inghiottita dal buio; e mentre le menti si dividono prese dal dubbio, gli attori – esausti – tornano a prendersi la loro meritata dose di applausi. Il pubblico del Teatro Guanella di Milano mostra di aver gradito. I Fantastici Quattro (o Gli Incredibili?) possono finalmente andare sotto la doccia».
Simone Pacini, klpteatro.it
«Teatro Sotterraneo nasce del 2004 a opera di quattro attori (Iacopo Braca, Sara Bonaventura, Matteo Ceccarelli e Claudio Cirri) e un drammaturgo (Daniele Villa). Hanno presentato il loro folgorante La cosa 1 il 25 giugno all’interno della Fabbrica delle Idee di Racconigi, nel parco dell’ex Ospedale psichiatrico. Vestiti di attillate tute hi-tech e dotati di opportune scarpe antiscivolo, dopo un “O Fortuna” dai Carmina Burana cantato a cappella, i quattro performer-atleti hanno corso a perdifiato per tutto il tempo della rappresentazione sulla scena completamente spoglia (a parte la momentanea apparizione di una panchina e di una tenda da campeggio). In un vero e proprio “trailer di una vita”, hanno mostrato i paradossi del nostro (assurdo e freneticamente inconcludente) esistere quotidiano. Relazioni, sentimenti e affetti centrifugati in mezzo a lettere d’amore piene di errori, frammenti amorosi in (autentico) giapponese, improbabili party privati al suono di Cacao meravigliao, questionari deliranti, divertenti interazioni con il pubblico e apparizioni di un gigantesco e spiazzante tricheco blu. Un teatro tutto fisico che, tra paradossi e stereotipi, racconta il nostro presente senza moralismi e (purtroppo) senza vie di fuga».
Paolo Bogo, slowfood.it
«Immobilità: una cosa sciocca. Più che sciocca, improbabile. Unica possibilità? Correre. Senza sapere dove si va, senza fermarsi un attimo a pensare. Semplicemente fare. La Cosa 1: una corsa, un fare, un procedere. Puro svuotamento di azioni e nessun sentimento, riflesso nel palco vuoto, senza alcuna scenografia. Il giovane gruppo Teatro Sotterraneo porta in scena un’energia folle, una frenetica esistenza fatta di un fare malato, disperato, esasperato: un fare che spesso non porta ad alcuna conclusione. Solo alla considerazione che devi correre. E per farlo devi essere ben attrezzato. Lo richiede la stessa sopravvivenza.
Il corpo dei quattro performer Iacopo Braca, Sara Bonaventura, Matteo Ceccarelli e Claudio Cirri vive una sofferenza, si ferma per pochi secondi: piccoli quadri, sketch di brevi episodi della propria vita, veri o inventati; situazioni. Il montaggio è serrato: Matteo sciorina al pubblico le violenze subite da tutti i suoi parenti, un mega pupazzo azzurro è sommerso di domande personali a cui non tenta neanche di rispondere, in una tenda da campeggio viene data una festa, su una panchina si susseguono dichiarazioni d’amore. Non si ha un vero discorso da fare: è una drammaturgia di azioni, non ci sono personaggi fittizzi, i performer si chiamano con i loro stessi nomi. Sono. E ancora situazioni: si regala una canzone romantica a cui si affidano i propri sentimenti. Forse anche essi vuoti. L’alternativa è scrivere una lettera. Inconcludente. O parlare in lingua giapponese. Incomprensibile. Non c’è tempo per soffermarsi troppo su quello che succede. Alle cose non si arriva preparati. Accadono. Passano.
Teatro Sotterraneo, fresco del Premio Ubu Speciale 2009, usa un linguaggio divertente, coinvolge il pubblico chiedendo dei numeri casuali che avranno poi delle conseguenze, una volta tradotti dai performer in azioni – schiaffi, baci, conti alla rovescia –: è il fare alla sua ennesima potenza. Daniele Villa, dramaturg di questo geniale collettivo teatrale, spinge il testo all’estremo, con situazioni al limite del paradossale; ma lo fa con un’intelligenza sottile che fa sorridere e che nasconde tutta la verità – e assurdità – del nostro vivere quotidiano.
Dopo essersi fermati per un’ora a teatro si esce e si ricomincia a correre, cercando di recuperare un tempo che però non è andato in questo caso perduto. Magari dopo aver visto questa corsa folle ci si soffermerà di più a vivere e a trattenere delle situazioni, riempiendole di significato, per non lasciarle correre via senza farne rimanere traccia. Dopo tutto: “si vive una volta sola”».
Carlotta Tringali, iltamburodikattrin.com
L’Odio come necessità del mondo.
«Lo spazio per la performance/evento è grande. Forse troppo. Le cinque figure vi si trovano immerse, diluite, come scogli che intaccano un’ipotetica prospettiva-marea. Ma lo stato iniziale è destinato a durare pochi, lunghi, attimi: i corpi subiscono un’inflazione cinetica, lo spazio si squarcia e si ricompone lungo le diagonali e le sinuose geometrie tracciate dai quattro performer-vettori, in movimento perenne. L’Amore e l’Odio, Philia e Neikos, giocano a dadi con questo universo-bambino in tumultuosa crescita, narrandoci di sfortune quotidiane e dissociativi quiz comportamentali, di passeggiate che terminano su una panchina distesa su un manto verde e di pupazzi senza il pollice opponibile.
Rigoroso e al contempo “provvisorio”, il lavoro Teatro Sotterraneo ruota attorno a un teatro fisico che va ben oltre la semplice dimensione performativa, per divenire evento cosciente – o meglio, serie di eventi – proponendosi come una quotidianità distillata chirurgicamente dal flusso omologante della socialità contemporanea. L’incessante azione scenica, che solo a una visione superficiale sembra connotarsi unicamente come un continuo dinamismo, si sviluppa lungo sprazzi narrativi minimali, essenziali, topoi grazie ai quali l’azione progredisce, riconnettendo ogni frammento in un orizzonte più vasto di significato.
I frammenti giunti fino a noi dell’opera di Empedocle, mago, filosofo e taumaturgo greco vissuto molti secoli prima di Cristo, pre-socratico e forse orfico, ci narrano della concezione del mondo di questo grande pensatore che leggenda vuole sia morto cadendo nell’Etna: quattro principi eterni stanno alla base del nostro cosmo; questi principi essenziali, immutabili, vengono combinati tra di loro quantitativamente dalle due forze cosmiche Amore e Odio; l’aggregazione che ne risulta viene chiamata “sfero”, punto perfetto e infinito che è, in breve, il mondo dentro il quale viviamo. Infine, al sopraggiungere dell’Odio, il mondo-sfero nuovamente si disgrega negli elementi primi, e di nuovo interviene l’Amore a ricomporre il tutto, e la Ruota del Mondo continua a girare, e le ere del mondo continuano a susseguirsi.
Il lavorio turbinoso in scena di Iacopo Braca, Sara Bonaventura, Matteo Ceccarelli e Claudio Cirri – tutti molto convincenti e intensi – porta a una mescolanza di corpi e sguardi, velocità e qualità che squarciano lo spazio e il tempo di ere sociali, o private, che vanno “dalla culla all’apocalisse”. Topoi come la festa, il corteggiamento, il quiz sono mondi-sfero ideali in cui l’Amore o l’Odio (l’assurdità catalogatrice del quiz, le urla su una panchina eletta a luogo d’amore) determinano il senso di quel correre a perdifiato. Questa Historia Universalis non conosce soste. Appena uno dei quattro stramazza a terra o perde il ritmo viene invitato con urla e spintoni a continuare. Si ricompattano e ricominciano a correre. Ne va della loro unicità, che non viene mai meno nelle ere che si susseguono davanti ai nostro occhi: la ragazza è Sara (Bonaventura), il ragazzo che scrive la lettera è Iacopo (Braca). La necessità dei quattro di creare dei mondi, di esistere, è ineludibile. Il titolo, perentorio, ne dà un esempio perfetto: si odono echi dalla pop culture (Howard Hawks? Be Grimm dei Fantastici Quattro? John Carpenter?) per uno spettacolo che è insanabile malattia, vitalità virale per un’esistenza unica e irripetibile, in cui ogni storia è infinitamente unica e sacra.
E ciò che sta alla base degli spettacoli dei Teatro Sotterraneo sembra confermare ciò: per ogni lavoro vengono accumulati i materiali più disparati, estensioni policrome e ingombranti di ognuno dei cinque componenti del collettivo – Palahniuk, Indymedia, il Satyricon, Scarceranda, Memento, Abraham Yehoshua, Skorpio e i comics della Marvel… Di tutto ciò un nome risuona durante La Cosa 1: Takeshi. Ed è la straripante comicità fisica (vedi Brother o Sonatine) e le surreali gag del grande autore-attore-regista giapponese che sembrano riverberarsi nell’estrema vitalità del fare teatro dei Teatro Sotterraneo, e – come non citarlo? – nell’assurdo pupazzo gigante che insegue uno di loro inciampando, e che, in assenza di pollice opponibile, non riesce a prendere, far suo, nulla – tranne, emblematicamente, il finale».
Luigi Coluccio, www.123people.it
Una rincorsa continua per sentirsi vivi
«Un atletismo circense come inno in perenne evoluzione trasformativa. Metamorfosi comunicative mediate da una poetica che si rifà al teatro dell’arte, semplice, essenziale, provocatorio. Un manifesto dedicato alle accezioni più svariate che compongono l’universo chiamato Vita. L’energia positiva è alla base di questo lavoro, portato in tournèe dal gruppo di Teatro Sotterraneo, dimostrato da un impegno fisico e mentale, che non si risparmia nell’economia dello spettacolo. Un’agitazione controllata da un equilibrio registico capace di armonizzare movimenti fulminei, proiettati dentro e fuori la scena. Un palcoscenico volutamente spoglio progressivamente riempito dai corpi scattanti dei quattro agilissimi e funambolici performer: Sara Bonaventura, Iacopo Braca, Matteo Ceccarelli, Claudio Cirri. E adesso? Se lo chiedono gli ignari spettatori convenuti a teatro, per onorare un rito sociale collettivo. Un adesso che deriva dall’attesa di assistere ignari a un evento indecifrabile nelle sue prime manifestazioni sceniche e coreografiche. Loro, i protagonisti, sono già sulla scena da principio ribaltando la convenzione che da inizio alla recitazione. Uno per volta escono in quinta per lasciare posto a un boato fragoroso. Un clamore di folla, un’esplosione sonora, un applauso vocale, come per annunciare l’entrata della star, di un idolo canterino. Tornati sulla ribalta, quattro voci per intonare i Carmina Burana in versione personalissima e divertente. La cifra stilistica, evidente sottotraccia drammaturgica, è dettata dall’ironia, sagace, giocata sul ribaltamento continuo dei piani espressivi, linguistici e meta-comunicativi. Una rincorsa continua come fuga dal presente. Corsa come metafora di esistenze sottoposte a sollecitazioni frenetiche. La vita è un incessante correre dietro a utopistiche chimere. Se ti fermi, non esisti, sembrano dire i quattro infaticabili. Correre come gesto di affermazione. Necessità improcrastinabile al fine di rivendicare l’esistenza stessa dell’essere in vita. Tanto da far dire agli attori: “Non fermarsi mai, ogni passo in più è una sfida all’immortalità”. Non c’è mai soluzione di continuità nello scorrere fluido, a volte compulsivo, nella reiterazione di una gestualità fisica. Tra loro si corteggiano, si amano, si scherniscono, esultano e giocano. Azioni in corsa, mai statiche, mai riflessive, o autocoscenziali. Non c’è tempo per soffermarsi, pena la caduta della tensione emotiva. Non ci si guarda all’indietro. Non si possono avere tentennamenti o rimorsi. Se ti fermi sei perduto. In scena si realizza l’immaginario collettivo di una realtà frammentata, scomposta, sezionata. Un collage di simboli e presenze fantasmagoriche. Un enorme pupazzo di peluche irrompe in scena. E’ un tricheco sottoposto a un questionario inconcludente. Una maschera grottesca per giocare sull’imprevedibilità di senso che s’insinua a getto continuo. Gag in collaborazione con il pubblico, tra lo stupore di chi viene baciato 19 volte dopo aver risposto alla domanda. “Dica un numero da 0 a 19”, l’ilarità suscitata dai 7 schiaffi dati da un attore all’altro, grazie al suggerimento numerico arrivato sempre da uno degli spettatori. Il numero 59 diventa il pretesto per dire: “Ci conosciamo da 59 anni”. La parola “amore” declinata in tutte le sue accezioni musicali, diventa un sequel stereotipato. Dal 90 allo 0, conteggiato all’indietro come una moviola verbale. Avanti e indietro. Non c’è autocompiacimento, tanto meno facili espedienti per suscitare ilarità e approvazione. Non c’è la ricerca di un’emozione da trasmettere, bensì l’evitamento, a fronte di una cinestesia emotiva e sensoriale, patologia diffusa tra le nuove generazioni. Spettacolo denso di simbologie esistenziali, tradotte mediante una scrittura assemblata e rilanciata sulla scena. Con intelligenza e tanto sudore».
Roberto Rinaldi, www.teatro.org